ImproveIsAction: intervista a Mike Melillo

17/10/2021 di Michele Campana

 

Intervista a Mike Melillo dopo il concerto al teatro Lauro Rossi di Macerata per la rassegna Macerata Jazz, con il suo trio (Elio Tatti al contrabbasso e Giampaolo Ascolese alla batteria)

 

Would you like to take a walk?

Brani originali di Mike, standards di Monk, arrivando fino al free con Ornette Coleman. Le dita si muovono veloci tra i tasti e gli occhi di Mike quando suona sono quasi sempre chiusi, grande raffinatezza e tanto swing. Mike scende dal palco, nel teatro fa freddo ma si sente il calore dei molti che lo attendono fuori dal camerino. Percorriamo insieme la strada che dal teatro arriva al Pozzo. Appena varcata la soglia della porta del ristorante, a sinistra, c’è una foto: capelli lisci tirati indietro, volto scavato, gli zigomi alti, lo sguardo basso e la tromba tra le mani. Per lui Mike ha scritto, con lui ha suonato ed inciso: è Chet Baker. Ordiniamo per entrambi una birra rossa e ci sediamo. “Come ti chiami?” chiede Mike. “Michele” rispondo. “Anche io mi chiamo così, e anche mio padre si chiamava così” dice Mike con il suo accento americano. Il vero nome di Mike è Michael Cosimo Melillo.

Come sta?

M.M.: Non male. Questa città però è cambiata molto, non è come prima. Quando negli anni settanta ed ottanta mi trovavo qui, Macerata era diversa. Ancora prima c’era anche un festival jazz che si svolgeva allo sferisterio, prima che nascesse il celebre Umbria Jazz. Era un posto tranquillo dove vivere, non era neanche necessaria la macchina per muoversi, in centro c’era tutto. Quando tornai successivamente, nel 2003, l’ho trovata molto diversa. Neanche la chiave della città c’era più.

In che senso, quale chiave?

M.M.: Mi diedero la cittadinanza onoraria, con tanto di cerimonia pubblica al teatro Lauro Rossi, ma quando tornai in Italia, non risultava più neanche la cittadinanza onoraria. Ho speso dieci anni per avere la cittadinanza italiana, era necessaria una parentela e sono dovuto andare a cercare i documenti risalenti a mio nonno che era di Benevento.  Mia nonna invece era di Avellino. Ho trovato i documenti, ma ci sono voluti una decina d’anni.

 

Il cameriere porta da bere a tutto il tavolo e facciamo un brindisi. “Dove abiti?” chiede Mike, io rispondo. “Ho un amico che vive lì” dice, poi mi chiede cosa studio e cosa faccio nella vita.

M.M.: Io anche ho fatto l’università, ma la mia laurea è stata inutile. Per me l’università è stata importante soprattutto per gli incontri con le persone, non tanto per lo studio. Io ho studiato musica ma gli incontri con i musicisti, con le persone sono stati tutto per me. Il musicista non ha bisogno di una laurea, non si chiede il documento prima di un concerto.

 

C’è un disco che ha particolarmente a cuore?

M.M.: Il primo disco, per l’etichetta RCA, uscito nel 76, fu un disco in quartetto con orchestra di archi e fiati. Erano molto bravi i musicisti newyorkesi, scrissi la musica con Phil Woods. Il titolo era “The new Phil Woods Album”. Un pezzo scritto da me, “Gee”, si trova nell’album.

“Quando sei andato a Praga e hai composto la musica per tutti a casa mia te lo ricordi?” dice una distinta signora seduta al tavolo con noi. “Si, prima però ho scritto qui per Chet Baker” risponde Mike. “Chet Baker l’ho ospitato a casa mia qui a Macerata” mi dice la signora. “Hanno suonato, hanno mangiato le lasagne di nonna e si è curato i denti da mio nonno” dice un’altra signora.


Come ha conosciuto Chet Baker?

M.M.: Chet l’ho conosciuto negli anni sessanta negli Stati Uniti. Abbiamo suonato insieme in un favoloso jazz club in New Jersey. Il proprietario di questo jazz club e sua moglie erano delle grandi persone, presero addirittura un piccolo appartamento per risparmiare i soldi e per poter pagare i musicisti. Erano dei grandi appassionati di Jazz, ma non solo, avevano soprattutto grande passione per i musicisti e per le persone. Ho suonato anche con Ben Webster, con Coleman Hawkins, per la prima volta in quel locale ho visto Phil Woods, poi Chet Baker, Art Farmer, Toot Thielemans. Anni dopo in Brasile rividi Toot Thielemans, e la prima cosa che mi chiese fu “Mike, come sta Amos?”. Amos era il nome del proprietario del club. In questo jazz club c’era spesso anche Clark Terry, e molti altri. Con Chet feci anche un disco per la Philology, insieme ad altri musicisti e all’Orchestra Filarmonica Marchigiana.

Il cameriere porta da mangiare e nel frattempo il dialogo continua. Elio Tatti, il contrabbassista, seduto davanti a me, parla delle collaborazioni con Nicola Arigliano, ma anche dei suoi trascorsi con Ennio Morricone: le prove in orchestra, il carattere scontroso del maestro, i concerti in Brasile, Argentina, Cile, le incisioni delle colonne sonore per i film.
La signora di prima mi dice: “Sai come si riscalda le mani Mike prima di suonare? Suonando Bach”.

M.M.: A casa ho dei dischi favolosi della Argerich che suona Bach. Ha davvero molto swing quando suona. In tutta la musica si può parlare di swing. Swing è anima, e lei mette moltissima anima quando suona. Quando la famiglia della Argerich si trasferì a Vienna, la giovane Martha incontrò Friedrich Gulda e tra i due nacque grande complicità. Martha Argerich studiò con Gulda, che era si un pianista classico, ma anche un grande appassionato di jazz. Anche quando la Argerich suona Bach si sente molto swing, si sente l’anima.

Quando lei suona è sempre ad occhi chiusi. In un’altra intervista disse “La realtà non mi interessa, è quella che tocchiamo ogni giorno, la verità è altra cosa. La musica viene dal sogno e i sogni portano alla verità”.

M.M.: La musica ha a che fare con la propria interiorità, con la propria anima. La musica è fatta di sogni, non di realtà. L’anima non è logica, è un sogno. Quando vai a dormire e sogni, che logica c’è? La musica è un sogno. In un certo senso esiste una logica, esiste certamente una grammatica musicale, ma poi si arriva oltre, e non si può dire che qualcosa sia giusto o qualcosa sia sbagliato, in musica si sente e basta. La musica viene dalla sensazione, la percepiamo, e tutti i grandi musicisti lo sanno. In tutte le arti è così. Anche nella religione è così, i musicisti però non cercano di dominare le persone con le loro idee; ma questa è un’altra storia.

Il cameriere chiede se gradiamo del caffè. L’una di notte è passata da un po’, ci alziamo e ci dirigiamo verso l’uscita. Nel locale c’è musica, riconosciamo il sassofono di Sonny Rollins, e Mike dice: “É Sonny Rollins. Lo conobbi nel 65, e suonai con lui per un paio d’anni, quello che stiamo sentendo è un disco di quel periodo”.

Usciamo, ringrazio Mike e ci salutiamo.

“Would you like to take a walk” è uno standard, contenuto anche in “Remembrance” un disco di Mike del 2013. Spesso Mike passeggia per le vie di Macerata, lo si può incontrare lungo il Corso, in Piazza o nel negozio di dischi in Corso della Repubblica. Si può passeggiare con lui e scambiarci due chiacchiere.

Grazie Mike

 

Michele Campana

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